Alice underground

Elisabetta Vignato - Alice undergrounda cura di Luca Beatrice

Alice Underground

(Concept Album)

Tutti conoscono Le avventure di Alice, ma pochi sanno che, prima di approdare nel Paese delle Meraviglie, la curiosa bambina inglese aveva vissuto le proprie avventure “Underground”, in un enigmatico sottosuolo. Le originali Avventure di Alice nel sottosuolo furono trascritte e illustrate da Lewis Carroll come un regalo alla sua adorata Alice Pleasance Liddell. Un dono d’amore “a una bambina in ricordo di un giorno d’estate”

Il capolavoro di Lewis Carroll, nome d’arte di Charles Lutwidge Dodgson, non è semplicemente una favola per bambini, ma rivela strane sorprese sulla biografia dell’autore.
In vari testi sulla fotografia dei primordi sono pubblicati suoi scatti, realizzati intorno al 1850, che gli conferiscono il merito di essere uno dei primi “artisti” in questo campo. Erano foto di bambine al limite del voyeurismo, caratterizzate da una strana atmosfera maliziosa ed eterea al tempo stesso, proprio come la Lolita descritta da cent’anni dopo da Vladimir Nabokov. Una ragazzina in particolare richiama alla mente questa idea: Alice Liddel, ancora la figlia in età pre-puberale.
Lewis/Charles infatti amava immortalare giovani pre-adolescenti immerse in atmosfere fiabesche e per loro aveva allestito una sorta di parco giochi nel giardino della propria abitazione affinché le ambientazioni sembrassero più reali.
I contenuti latenti di un’epoca votata alla rispettabilità e al perbenismo erano, quindi, destinati a emergere per rivelare dietro al vacuo inno al progresso e all’efficientismo un più profondo senso di smarrimento collettivo. Traducendo nei cambiamenti di Alice l’ansia legata alle trasformazioni di un mondo in cui ogni cosa acquistava miracolosamente vita, il romanzo di Carroll riusciva a manifestare un’indubbia capacità di scavare nel reale, di rivelarne le assenze, di comporre, insomma, l’invisibile. L’orizzonte letterario in cui si ascriveva era vicino all’antica forma del “romance” ed era volto a instaurare una sorta di contro tradizione che prediligeva la non coerenza e l’anarchia. Sostituendo alla familiarità e all’agiatezza del mondo un universo governato dal paradosso e dal reversibile, Carrol riusciva a mettere a nudo il lato irrazionale della natura umana. Rivelando contro la stabilità dei sistemi socio-economici il piacere e il gioco della confusione, dipingeva un mondo che, nel suo più ampio senso della realtà, non poteva non inquietare il lettore.
La difficoltà a interpretare gli eventi, l’incapacità a esprimere una visione statica e unitaria rispetto a quanto viene narrato determina un effetto perturbante che si esplica laddove la descrizione del reale cede il posto a quanto d’ignoto e di occluso può nascondersi dietro la superficie del quotidiano.
Senza auspicare un mondo alternativo Lewis Carroll, che fondamentalmente era un conservatore, collocò la sua storia in quella terra di nessuno tra il reale e l’immaginario, in un’area dominata dall’incertezza, lasciando che la percezione dei lettori ne uscisse totalmente dissolta.

E’ sicuramente per questo suo essere un inno alla bizzarria, una favola così fuori schema da risultare consigliata a un pubblico adulto soprattutto perché molti dei suoi esegeti (e soprattutto dei suoi fans) ci hanno visto significati reconditi, che Alice nel Paese delle Meraviglie si è trasformata in un vero e proprio must verso la metà degli anni ’60. Basti pensare a quanti giovani genitori sessantottini diedero il nome Alice alle loro bimbe, un nome usato pochissimo nella prima parte di quel decennio (quando siamo venuti al mondo sia Elisabetta Vignato che io): Alice come a dire nata libera, fuori da ogni convenzione sociale, pacifista, eccessiva, un po’sballata ma sempre innocente e felice.

Ragazzi che spesso sono intelligentissimi, svegli, capaci di fare più cose contemporaneamente, con capacità intellettive al di sopra della media. Col solito rito del “consenso informato” (basta scrivere come genitori, che si e’ informati, per scaricare ogni responsabilità dalle mani dei medici e dello Stato) che come tutti dovrebbero sapere informato non è per niente: quale genitore, sapendolo, darebbe a suo figlio un farmaco derivato dalle anfetamine e che può sviluppare dipendenze peggiori della cocaina?
Sono fra i 6 e i 7 milioni (secondo la dichiarazione del dottore F. Baughman nell’articolo “Making Sense of Ritalin”, di John Pekkanen, Reader’s Digest gennaio 2000) solo negli Stati Uniti i bambini trattati con uno psicofarmaco stimolante, il ritalin, e le diagnosi di tale “male” con conseguenti prescrizione di droghe di sintesi sono in aumento in tutto il mondo occidentale (si parla di un raddoppio del numero di diagnosi ogni 3 / 4 anni negli USA e ogni anno in Inghilterra). Adesso addirittura tale disturbo viene diagnosticato a partire dal primo anno di vita, e senza alcuno scrupolo i medici prescrivono a bambini ancora lattanti una droga, il Ritalin appunto, che negli anni ‘60 era utilizzata da alcune comunità hippies per ‘sballare’: “A volte li vedevi completamente immersi in un delirio totale da Ritalin. Non un gesto, non un’occhiata: potevano sedere assorti in qualsiasi cosa – un tombino, le rughe del palmo delle proprie mani – per un tempo indefinito, saltando un pasto dopo l’altro, fino all’insonnia più incoercibile … puro nirvana da metilfenidato.” (Tom Wolfe, Il cervello senz’anima, 1996).
Dal punto di vista della sua classificazione tossicologica questo farmaco si trova nella stessa tabella di cocaina, anfetamina, oppiacei e barbiturici (categoria degli stupefacenti). È questa la sostanza che va somministrata a bambini disattenti e ipercinetici per renderli più sopportabili a genitori e maestri (Il Ritalin è un eccitante del sistema nervoso che ha effetto calmante sulla sfera emotiva e comportamentale; probabilmente si tratta di un paradosso simile a quello che può avvenire con altre sostanze come le benzodiazepine: a piccole dosi ha un effetto stimolante, a dosi maggiori un effetto calmante, soprattutto nei bambini anche con una dose che per un adulto risulta modesta). Di queste “malattie” come “deficit di attenzione” (ADD) e/o “iperattività/impulsività” (ADHD) secondo psichiatri e neuropsichiatri avrebbero sofferto fra gli altri lo scrittore di favole più famoso del mondo Hans Christian Andersen, e Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie.

Nell’età dell’oro della psichedelia beat un LP a 33 giri non era una semplice raccolta di canzoni ma un vero e proprio progetto dotato di una sua struttura narrativa. In alcuni casi questi “Concept Album” erano dei veri e propri capolavori (da Sgt. Peppers dei Beatles a The Wall dei Pink Floyd, passando per Ziggy Stardust di David Bowie e In the court of Crimson King dei King Crimson), più spesso pomposissime esibizioni di virtuosistici a-solo e interminabili smielature sinfoniche (di cui Emerson, Lake & Palmer furono maestri, ad esempio nell’insopportabile Pictures in Exhibition ispirato al compositore russo Mussorgski).

Alice nel Paese delle Meraviglie fece da sottotesto a innumerevoli concept album che intendevano parlare di realtà altre e non razionali.

Per alcuni, addirittura, la bambina è una metafora della generazione dell’LSD, e non a caso il ghiro grida NUTRI LA TUA TESTA/ FEED YOUR HEAD. Un viaggio che comincia con l’inseguimento di un coniglio bianco:

One pill makes you larger, and one pill makes you small,

And the ones that Mother gives you don’t do anything at all.

Go ask Alice when she’s ten feet tall.

And if you go chasing rabbits, and you know you’re going to fall,

Tell ‘em a hookah-smoking caterpillar has given you the call.

Call Alice when she was just small.

When the men on the chess board get up and tell you where to go,

And you’ve just had some kind of mushroom, and your mind is moving low,

Go ask Alice. I think she’ll know.

When logic and proportion have fallen sloppy dead,

And the white knight is talking backward, and the red queen’s off with her head,

Remember what the doormouse said: “Feed your head! Feed your head!”

Jefferson Airplane, White Rabbit

The Piper at the Gates of a Dawn dei Pink Floyd oscilla tra squarci favolistici che rimembrano spiragli di mondi fantastici tratti dal romanzo di Carroll, le cui disconnessioni lasciano intendere il clima di schizofrenia regnante nell’inter-mentale di Syd Barrett, alla quale nessun razionale rimedio sembra poter opporsi, se non continue e massicce dosi del suo più caro amico/nemico, l’acido. I racconti surreali e nonsense di John Lennon – alcuni dei quali erano già stati pubblicati sulla rivista Mersey Beat a partire dal 1961 – spinsero i recensori dell’epoca a scomodare Lewis Carroll, Edward Lear e perfino James Joyce. Il riscontro positivo fece sì che Lennon – e i soprattutto i suoi editori – tentassero di ripetere il colpo, e infatti nel 1965 venne dato alle stampe il suo secondo libro, A Spaniard In The Works, che riprendeva gli spunti felici dell’esordio. Elementi di questo approccio alla scrittura – rimasti curiosamente estranei ai testi delle canzoni – emergeranno solo alla fine nelle composizioni del periodo psichedelico dei Beatles e in vedi e propri capolavori pop come Strawberry Fields Forever, A Day In The Life o I Am The Walrus.

In Italia, uno per tutti, ci pensò Francesco De Gregori, con Alice, canzone inno che fece la fortuna del suo enigmatico autore, con tanto di strofa censurata dalla casa discografica:

il mendicante arabo ha qualcosa nel cappello

ma è convinto che sia un portafortuna

dovette sostituire il più inquietante

il mendicante arabo ha un cancro nel cappello

ma è convinto che sia un portafortuna

Nel frattempo Alice e la sua voglia di libertà hanno conquistato il cinema europeo e hollywoodiano che all’epoca, per essere preso sul serio, doveva essere d’autore. Importante: diversi film che hanno la parola Alice nel titolo o tra i protagonisti, sono stati girati in un lasso di tempo piuttosto breve, dal 1969 al 1980.

In Alice’s Restaurant di Arthur Penn (USA, 1969) Ray e Alice gestiscono un ristorante per mantenere una comunità hippy che vive in una chiesa sconsacrata.  E’ un film in forma di tenera ballata che si vede con simpatia, almeno per chi ha interesse o nostalgia per le idee, i sentimenti e la musica pop degli anni ’60. Tra gli interpreti Arlo Guthrie (figlio del grande Woody) che con la title track del film scrisse il suo unico successo discografico.

You can get anything you want at Alice’s Restaurant

You can get anything you want at Alice’s Restaurant

Walk right in it’s around the back

Just a half a mile from the railroad track

You can get anything you want at Alice’s Restaurant

Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore) di Martin Scorsese (USA, 1975) è la storia di Alice rimasta vedova con un figlio dodicenne a carico, che decide di tornare a Monterey, guadagnandosi la vita strada facendo, con la sua vecchia professione di cantante. Scorsese on the road al seguito di Ellen Burstyn (che ebbe meritatamente l’Oscar), attraverso l’America provinciale delle autostrade. Un tema vecchio trattato in modi nuovi.

Ma soprattutto  Alice nelle città (Alice in den stadten) di Wim Wenders (Germania, 1980). Felix è un giovane giornalista-fotografo tedesco che si trova a New York da tempo; deve portare al suo editore un “reportage” sul paese che lo ospita. Ma non trova la giusta ispirazione, riesce solo a scattare tante e desolanti fotografie. Il principale lo licenzia e lui decide di tornare in Germania perché stufo e deluso dell’America; all’aeroporto conosce una sua connazionale, Liza, in difficoltà nello sbrigare le pratiche per la partenza. Lei lo prega di condurre in Olanda sua figlia Alice, di nove anni, poiché ha ancora delle faccende personali da risolvere; rimangono d’accordo che la donna li raggiungerà il giorno dopo ad Amsterdam. Felix accetta piuttosto contrariato. Giunto a destinazione, di Liza nessuna traccia; Felix allora si propone di andare in Germania alla ricerca della nonna di Alice. Inizia così il pellegrinare, senza una meta precisa, dei due protagonisti, Felix e Alice. Prendono la macchina, il treno, il traghetto, l’aereo, girano città e paesi; dapprima l’uomo è molto seccato della presenza della bambina, poi man mano si affeziona alla vivace ragazzina che, da parte sua dimostra molta maturità. Il loro rapporto, nato casualmente, diventa vera amicizia; l’uno e l’altra riacquistano fiducia in loro stessi e nella vita. Alla fine la polizia, informata da Felix, riesce a trovare la nonna e la madre di Alice; il bel sogno e il viaggio nel tempo sono terminati, si torna alla realtà ma ormai rinfrancati e più ottimisti.

Tutti i sogni, anche i più belli, sono destinati a infrangersi come le utopie. Per Alice la stagione della libertà finisce poco dopo. Nel 1982 esce un libro anonimo, durissimo e impietoso dal

titolo Alice e i giorni della droga (Go Ask Alice), scritto in forma di diario.

Siamo negli anni ’70: Alice è una quindicenne americana appartenente al ceto medio. Il padre è un professore universitario che per motivi di lavoro è costretto a trasferirsi con tutta la famiglia. La giovane Alice ha così la possibilità di fare nuove conoscenze, tuttavia i suoi rapporti interpersonali sono turbati da alcuni problemi di alimentazione che la seguono già da tempo. Quando, durante una vacanza nella città dei nonni, Alice partecipa a un party ed è qui che avrà la sua prima esperienza con l’LSD. Da questo momento la sua vita cambia radicalmente… Inizia così il suo viaggio che la porterà in breve tempo a conoscere anche la marijuana e le anfetamine, e proprio sotto l’effetto di queste ultime perde la sua verginità. Ormai la ragazza non è più la stessa: i genitori non sanno cosa le stia accadendo, non capiscono e pensano che Alice, precipitata in una serie di esperienze seducenti ma disgregatrici, si sia “legata alla gente sbagliata”. La giovane ha stretto nuove amicizie e abbandonato la vecchia compagnia, in particolare stringe un forte rapporto con Chris, una ragazza con cui fuggirà da casa. Le fughe e i ritorni, i ricoveri e le ricadute si susseguono nella sua vita. Il libro si conclude con l’inizio di una nuova vita per Alice che coincide con un periodo più sereno e che è testimoniato da un nuovo diario in cui comunque non mancano i segni delle crisi che hanno segnato per sempre la sua vita.

Ialicen quell’atto era entrata in una graziosa cameretta, con un tavolo nel vano della finestra. Sul tavolo c’era, come Alice aveva sperato, un ventaglio e due o tre paia di guanti bianchi e freschi; prese il ventaglio e un paio di guanti, e si preparò ad uscire, quando accanto allo specchio scorse una boccettina. Questa volta non v’era alcuna etichetta con la parola «Bevi». Pur nondimeno la stappò e se la portò alle labbra. «Qualche cosa di straordinario mi accade tutte le volte che bevo o mangio, – disse fra sé; vediamo dunque che mi farà questa bottiglia. Spero che mi farà crescere di nuovo, perché son proprio stanca di essere così piccina!»


E così avvenne, prima di quando s’aspettasse: non aveva ancor bevuto metà della boccettina che urtò con la testa contro la volta, di modo che dovette abbassarsi subito, per non rischiare di rompersi l’osso del collo. Subito depose la fiala dicendo: – Basta per ora, spero di non crescere di più; ma intanto come farò ad uscire! Se avessi bevuto un po’ meno!

Oimè! troppo tardi! Continuò a crescere, a crescere, e presto dovette inginocchiarsi, perché non poteva più star in piedi; e dopo un altro minuto non c’era più spazio neanche per stare inginocchiata. Dovette sdraiarsi con un gomito contro l’uscio, e con un braccio intorno al capo. E cresceva ancora. Con un estremo sforzo, cacciò una mano fuori della finestra, ficcò un piede nel caminetto, e si disse: Qualunque cosa accada non posso far di più. Che sarà di me?

Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie


Bambini nel tempo

Da alcuni anni Elisabetta Vignato dipinge soprattutto bambini, dopo aver lavorato su altri soggetti (come gli interni e i paesaggi) che l’hanno vista tra gli emergenti più interessanti nel panorama della giovane pittura italiana.

Esaurite le ragioni teoriche, le suggestioni visive e letterarie, nella lunga postfazione posta in coda alle immagini catalogo, veniamo qui brevemente ad analizzare il linguaggio e lo stile pittorico della Vignato.

Le sue opere possono essere inscritte in quella tendenza della figurazione internazionale dominata dall’asciuttezza, dalla magrezza del tratto, dalla prevalenza del disegno e dalla riduzione cromatica della tavolozza. Pur essendo, senza eccezioni, una pittura d’immagine, essa aspira a un progressivo minimalismo che si allontana dalla narratività e, perciò, tende a presentare il soggetto sopra un fondo monocromo slegato dalla realtà.    

Questo “modus pingendi” ha preso piede in particolare dalla seconda metà degli anni ’90. La generazione precedente di giovani pittori aveva preso in esame due questioni rilevanti: la prima, l’attenzione per la narratività, il desiderio di raccontare storie capaci di stare in un’unica “inquadratura”, sottolineando così una comunanza culturale tra l’opera e il pubblico; la seconda, il rapporto con la realtà sottolineato da uno stile quasi mimetico con la fotografia, attraverso l’uso di effetti tra il flou e l’iperrealista. In seguito è come se la pittura si fosse affrancata da questo essere/non essere, riprendendo così fiducia nei propri mezzi: elementi salienti come il segno, il gesto, l’illusione ottica, l’artificio spaziale sono ritornati in auge e la nuova pittura ha così puntato su un formule più sintetiche e leggere.

Elisabetta Vignato appartiene dunque a quella “famiglia” di pittori che la sensibilità ha riconosciuto come la “linea dominante” nel gusto contemporaneo. Da quando la critica ha in qualche modo riscoperto Alex Katz, attribuendogli il giusto peso dopo anni in cui erano prevalse altre inclinazioni, comunque più espressioniste, ne è come derivato un genere totalmente nuovo e autonomo che ha visto, tra i protagonisti, diversi autori britannici come il gallese James Reilly (che espose anche a Sensation), l’italo-inglese Alessandro Raho e la nipponico-londinese Yun Hasegawa.

Come la Vignato, anche loro sono “pittori di ritratti” in grado di restituire un sottile psicologismo attraverso la cura del dettaglio, l’eleganza del tratto, il non dissimulare che tale esercizio appartenga al dominio della finzione.

Il dipingere bambini, in apparenza, potrebbe voler dire il suo essere nella realtà. Nel caso di Elisabetta in particolare: tre bambini appartengono alla sua vita quotidiana, tante immagini di bimbi (foto vecchie e nuove, filmini in super 8 di un tempo e della videocamera digitale di oggi) popolano la sua esistenza. Un soggetto tanto normale quanto mai banale, ma che le consente in qualche modo di “essere libera” dal problema del soggetto stesso (che per un pittore figurativo è questione non da poco) e quindi di concentrarsi sull’approccio teorico alla pittura, andando così a sperimentare soluzioni formali spesso diverse che l’hanno allontanata passo dopo passo dagli obblighi narrativi.

Ma c’è di più. C’è l’infanzia come condizione invidiabile della pittura. Un mondo a parte, retto da sue regole speciali che vorrebbe imitare gli adulti mentre ne falsifica proporzioni e dimensioni, mostrando tutti i suoi limiti, le ipocrisie e la finzione. Perché essere pittori, in qualche modo, è essere Bambini nel tempo, come recitava un bellissimo romanzo di Ian McEwan a cui ho preso in prestito il titolo.

Un equilibrio diverso dal nostro, quello dei bambini-pittori. E’ da questa semplice constatazione che Elisabetta Vignato compie il suo viaggio nel Paese delle meraviglie scegliendo la piccola Alice come guida. Di tutto questo leggerete in fondo, non prima di esservi sorpresi e meravigliati per la poesia, la sensibilità e l’abilità di questi nuovi quadri.