In piena luce

Elisabetta Vignato In piena luce

Illuminazioni

a cura di Alberto Zanchetta

Negli ultimi anni Elisabetta Vignato sembra destinata a continue, repentine svolte. Cambiamenti che non intendono sancire una drastica rottura con il proprio passato, ma che viceversa perseguono una costante crescita filologica.

Qualche anno addietro Gianni Romano aveva scritto (in catalogo della personale “Giovani Adulti” tenutasi nell’autunno del 2006 presso le Scuderie di Palazzo Moroni a Padova): «C’è la tendenza a negare il racconto in questi quadri, a fornirci delle istantanee, da qui lo sforzo di rendere astratto lo sfondo […], contemporaneamente questo corrisponde allo sforzo appena percettibile di limitare le proprie capacità tecniche […], di non lasciarsi andare alla ricerca del bello fine a se stesso, di non strafare, di concentrarsi su un’atmosfera o un sentimento, magari tracciata con poche linee». Permane ancor’oggi la volontà di non raccontarsi addosso, di sfiorare con discrezione il tema per poi fuggirne la spiegazione; tuttavia, la pittura si è fatta più generosa, l’asciuttezza del segno e del tocco si incarnano ora a tutto campo. Le figure umane scompaiono e viene alla ribalta lo sfondo, quell’intorno che non vedevamo e che ora domina la scena, in quanto “soggetto” dell’opera. Un soggetto che non è mai solo ciò che vediamo ma che – come detto poc’anzi – insiste ad essere un sentimento, un’atmosfera. Fatta giusto eccezione per una serie di piccole tecniche miste (…ci lasciano vivere la vita indisturbati, come noi l’intendiamo…) che si riallacciano alla precedente ricerca, Elisabetta Vignato smette di indagare il carattere, il comportamento o il vestiario di giovani obbligati a crescere troppo velocemente. L’adolescenza, che è sempre stata al centro della sua poetica, si riversa nel mondo fenomenico, non tanto per colmare il vuoto dei fondi monocromi, né per contestualizzare le figure, bensì per focalizzare l’attenzione sugli oggetti, sugli interni domestici o sui paesaggi che erano stati rimossi dallo spettro visivo.

Immagini che sono altro dalla copia pedissequa del reale, emergono non già da ciò che l’artista ha modo di vedere ma da ciò che è stato visto, ossia dalla memoria se non addirittura dall’immaginazione, la cui traduzione percettiva mantiene in sé quell’ambiguità polissemica che appartiene all’immaginario della fantasticheria. La ricerca del confine fra luce e ombra, fra reale e illusione, fra onirico e cognitivo viene qui espressa senza artifici, generando domande che non abbisognano di risposte. La pittura conserva dunque tutta la sua pregnanza, indice di quanta importanza abbia avuto questa disciplina nella formazione dell’artista; tecnica che negli anni si è fatta irrequieta, vorace, camaleontica. Rifuggendo dall’eclettismo schizofrenico che ha fatto la fortuna di molti artisti dell’ultimo ventennio, nella varietà di soluzioni offerte dall’artista si evince sempre e comunque quel quid, quell’impronta che rende il suo stile pienamente riconoscibile, senza mai doversi smentire né rinnegare per cavalcare facili – quanto falsi ed effimeri – consensi. La materia si sedimenta e si frammenta, la trasparenza delle velature si alterna a dense campiture, le colature si avvicendano con effetti di sfumato, zone di luce contrastano con ombre intense e impenetrabili. Ma la cosa più sconvolgente e conturbante di tale luminosità è che essa eccede la visione, fa eclissare il mondo sensibile. Come la totale oscurità, anche la luce intensa annulla lo sguardo, ma (a differenza della tenebra) la sparizione non avviene qui inglobando l’oggetto nella profondità, bensì portandolo alle estreme conseguenze, verso la dissoluzione della forma e della sua consistenza.

Suggestioni affascinanti, intense e di forte impatto emotivo, rimandano ad una poetica di solitudine e desolazione, di poesia e lirismo, di delicatezza e asprezza. Ambiguità dal carattere ossimorico che si riscontra anche nei soggetti scelti, in cui il mondo delle cose si confonde con il loro desolato abbandono, la fiaba si rimesta nella realtà, il sogno nell’incubo. L’atmosfera della fantasticheria sottintende il rifugio nella costruzione di un’illusione e l’idealizzazione del passato, ma la schietta sincerità con cui ogni dettaglio è messo in evidenza corrisponde ad un’analisi manifesta, ad un messaggio che si avvale della funzione simbolico-endocettuale propria all’idea o al sogno (quello ad occhi chiusi così come quello ad occhi aperti). Il taglio compositivo scelto predispone l’osservatore a prendere parte alla scena, trovandosi in una situazione intrusiva in cui il confine fra lo spazio interno dell’opera e la realtà del fruitore viene praticamente annullato. Siamo dentro all’opera tanto quanto essa finisce per tracimare all’esterno, facendo fuoriuscire la propria ambientazione, portando le cose sì fuori dall’opera ma per accoglierle direttamente all’interno della nostra mente. È come se il quadro stesso fosse stato prodotto direttamente dalla nostra mente. In questo modo Elisabetta Vignato riesce nell’intento di dilatare lo spazio al punto da fondersi con la realtà percettiva dello spettatore.

A differenza di ogni precedente esperienza, l’onirismo tecno-poetico della Vignato corrisponde alla necessità – quando non addirittura all’unica possibilità – di espressione. Poiché durante il sogno l’attività percettiva è prevalente rispetto a quella cognitiva della veglia, i contenuti del sogno vengono visti e sentiti piuttosto che pensati; l’attività del sogno coinvolge tutti i sensi, e le emozioni che vi vengono manifestate hanno un grado assoluto di purezza, nessuna mediazione conscia ne inficia la valenza, almeno finché essi si formano con il cosiddetto “processo di pensiero primario” classificato da Freud. Nel caso delle opere della Vignato l’ambiguità di fondo non scaturisce da dubbi o incertezze, bensì da una chiarezza enigmatica portata all’eccesso, da una luminosità che pur annullando le ombre finisce per celarne molteplici (se non infinite) al proprio interno. La disarmante evidenza delle cose si accompagna quindi a una condizione sensoriale sfuggente. Inafferrabili eppure assolutamente presenti sono i cani, le foreste, le grotte, i fiumi, e tutti quegli enigmi non svelati ma disvelati che tali associazioni sono in grado di smuovere; enigmi che fanno da eco ad interni sempre vuoti, a campi giochi deserti, a balocchi abbandonati. Queste opere si pongono come immagini sensoriali, evocazione di suggestioni ferine ma al contempo delicate, quasi distorte nella loro immediata chiarezza. Psicologicamente impegnative, le suggestioni si ancorano alla fantasia quanto pure alla traduzione e tradizione di archetipi.

Le fronde che convergono su di noi ci condurranno all’interno dell’hortus conclusus del nostro inconscio o saranno il tranello che la nostra mente ci pone per condurci in fallo? Al loro interno si nasconderà qualcosa in grado di sorprenderci? E sarà terribile oppure piacevole? Il Sublime, attutito e schematizzato, diventa un viaggio intimo, percorso che è anche auto-analisi e interrogazione di sé. Qualunque sia l’arrivo, la strada che ci viene indicata ci porterà forse all’hortus deliciarum. Ogni quadro sembra infatti voler rimanere su una soglia: in essi avvertiamo che il passo successivo, quello che valicherà la porta (della mente), non è destinato a ritrarre il piede all’interno, verso il buio, ma avanzerà verso l’esterno, per essere investito dalla luce… in piena luce.