Baby gang

Elisabetta Vignato Baby Gang

Piccole star crescono

di Alessandro Riva

Fin da bambini, i pubblicitari, gli scienziati della comunicazione, quei persuasori occulti di cui parlava già Vance Packard nel 1958, ci hanno invaso la testa e la casa di immagini piacevoli e rassicuranti, come surrogati di quella sicurezza e calore che i genitori, la scuola, la famiglia in eterna crisi d’identità non sono più in grado di fornirci. Una leggera, vaga consapevolezza ogni tanto affiora qua e là all’interno di questo idillico quadretto, facendoci intuire che sotto la maschera di felicità si nasconde un lato oscuro – che la morte aleggia anche nelle fiabe, e che i cattivi non finiscono sempre e inevitabilmente sotto le ruote di qualche provvidenziale schiacciasassi. Ma il quadretto nel suo complesso sembra tenere, nonostante tutto, a beneficio (o a scapito) dei nostri figli, e delle generazioni a venire.

Eppure qualcosa sta cambiando nel nostro rapporto con i media. In particolare quando si tratta di questioni che riguardano, in un modo o nell’altro, l’infanzia. Lo spaventoso – e a tratti, nella sua allucinata (ir)realtà, persino affascinante – miscuglio di fiction e realtà, di fiction che si mimetizza nella realtà e di realtà che si mimetizza nella fiction, oggi è diventato, in appena un paio di lustri, la ‘normale’ maniera di vivere, di affrontare, di ‘sentire’ la cronaca per chiunque viva in questo luogo e in questo secolo. In questo contesto, la cronaca che concerne il mondo dell’infanzia o della preadolescenza (baby gang stupra minorenne, baby gang adesca e uccide una coetanea, e così via), non fa caso a sé, ma semmai, e più semplicemente, porta all’estremo le caratteristiche delle altre forme di spettacolo contemporaneo: considerati per eccellenza dei diversi, degli alieni, allo stesso tempo dei modelli vincenti e dei soggetti eternamente borderline, da trattare con le pinze per non farli esplodere, i giovani oggi costituiscono, dal punto di vista mediatico, un soggetto a sé, una categoria a parte di cui la società sembra provare insieme fascino e terrore. E di questa fatale mescolanza di fascino e terrore la cronaca sembra nutrirsi voracemente e famelicamente, seguita a ruota dall’arte.

Da tempo, i lavori più duri e coraggiosi degli artisti contemporanei ci invitano a guardare nel fondo della sostanza più buia e più nera della cultura occidentale, e ci invitano a sfidare proprio l’ultimo tabù – quello dell’innocenza e dell’intoccabilità dell’infanzia. Eppure, oggi, gli artisti più giovani e innovativi hanno voltato radicalmente pagina: non si tratta più, per loro, di dare scandalo (come avveniva anche solamente per i loro fratelli maggiori), né di sfatare il dolce quadretto familiare imbanditoci dalla tivù con immagini scioccanti e disturbanti, ma, al contrario, di lavorare sul filo di lana, sul confine, in quella crepa che rappresenta proprio quel limen tra realtà e finzione di cui parlavamo poche righe fa.

I lavori di Harding Meyer si situano esattamente in questa linea sottile di demarcazione tra realtà e fiction, tra reale e immaginario, tra cronaca che si spettacolarizza ogni giorno di più per tenere dietro a una realtà sempre più improbabile e di una realtà che, a sua volta, estremizza i suoi caratteri finzionali per tener dietro al desiderio di spettacolarizzazione della cronaca; e non è un caso che l’artista ammetta di riprendere i suoi soggetti direttamente dalle pagine dei giornali e dai frame dei telegiornali, prendendo soprattutto spunto dalla cronaca, nera o rosa che sia. I suoi sono i volti dei testimonial della cronaca, dei mille bambini e ragazzi sbalzati dall’anonimato a una – spesso triste, ma non solo – cronaca di un solo giorno (il famoso quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol) in virtù di un qualche banale avvenimento, di una qualche banale tragedia o di un qualche banale scarto dal normale tran tran famigliare.

Non diversamente, Paolo Maggis lavora su situazioni fortemente quotidiane e domestiche, ma non un’aria di mistero, di incertezza e di tensione che attraversi tutti i suoi lavori. Come già accade nel caso di Meyer, anche per Maggis il volto vagamente (o pesantemente) sfuocato, irriconoscibile, fuori sincronia, dei suoi bambini e adolescenti, in forte contrasto con l’atmosfera tranquilla e solare dei lavori, ricorda da vicino il volto dei tantissimi bambini che quotidianamente, per una tragedia, un delitto o un sopruso subìto, ci viene imbandito dai telegiornali e dalle gazzette locali: volto che, come nella tragedia greca, ci viene appunto sapientemente e sommariamente celato (solitamente, in tivù, con una striscia di pixel digitali), con l’effetto di contribuire, per paradosso, all’aumento esponenziale della trasformazione in ‘idolo’ del bambino fortuitamente ‘sbattuto’ in prima pagina, contribuendo così a creare un alone di mistero, di fascino ‘maledetto’ intorno alla sua figura.

Anche Valerio Berruti ci parla di intimità e di inquietudine. Quelli di Berruti sono eroi moderni e antichi: l’artista ci parla degli eroi inconsapevoli, dei tanti, piccoli eroi gettati giorno dopo giorno nelle nostre case dal televisore, ma per farlo utilizza la metafora del racconto delle vite dei santi. Nei lavori di Berruti, i santi hanno infatti i volti dei tanti bambini che incontriamo ogni giorno per la strada, che vediamo andare a scuola la mattina, quei bambini sbalzati dall’oggi al domani, inaspettatamente, sulle prime pagine dei giornali o negli schermi televisivi dalle trasmissioni ora drammatiche ora patetiche di cui il tubo catodico è particolarmente prodigo.

Infine, anche Elisabetta Vignato lavora da anni sul tema dell’infanzia con una sicurezza e una scioltezza di linguaggio del tuttto invidiabile.

I suoi sono bambini-mostri, bambini alieni, insieme strani e normalissimi, sono freak contemporanei (come nella serie Twins), in fondo comunissimi bambini di oggi, come strani cloni di quelli che ogni giorno vediamo per strada o sui telegiornali, che l’artista ha scovato per noi e grazie ai quali ci permette di entrare e uscire dalla realtà, di sbirciare dietro le tendine della villetta di questo o quel delitto famigliare, di questa o quella vicenda o tragedia domestica che la cronaca ogni giorno ci imbandisce, per farcene diventare spettatori e protagonisti, muti testimoni e involontari complici.